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In occasione della Giornata Internazionale della Donna abbiamo raccolto le testimonianze di Sr. Miriam Oyarzo, Francescana Missionaria del Sacro Cuore (FMSC), e di Sr. Stella Balthasar, Francescana Missionaria di Maria (FMM), entrambe impegnate nel servizio a favore delle donne più emarginate.

Dal 2015 Sr. Miriam Oyarzo lavora con le donne del carcere di Bakirkoy, a Istanbul, in Turchia. “Ci tengo a dire che queste donne non sono criminali: sono solo vittime di un sistema criminale, molto potente, che sfrutta la loro povertà e la loro vulnerabilità”, racconta al telefono con una voce ricca di amore nei loro confronti.

Queste donne, infatti, nell’80-90% dei casi, sono state arrestate in aeroporto per traffico di droga. “Io sono cilena e quando mi chiesero di partecipare a questo servizio per assistere le detenute sudamericane e di lingua spagnola, ammetto che ebbi molti dubbi. Ma quando ho incontrato queste donne, queste madri, queste signore anziane disperate e sole, ho pensato che fosse un discernimento su tutta la mia vita, mi sono affidata alla Provvidenza e ho detto sì”.

L’equipe di cui Sr. Miriam fa parte è chiamata ad “essere presenza” nel carcere di massima sicurezza di Bakirkoy: “Noi dobbiamo innanzitutto ascoltare. La nostra è una comunità di presenza, la nostra congregazione missionaria ha un carisma internazionale e questo è un servizio ecumenico, perché in carcere con noi viene anche un frate francescano, Fr. Eleuthere Makuta, un pastore protestante, Ali Kalkandelen, e una suora armena, Sr. Kayiane Dulkadiryan. Il nostro compito è stare vicino alle donne ed aiutarle concretamente dentro e fuori il carcere”.

Il progetto nasce circa 15 anni fa, quando l’allora Direttore dell’istituto penitenziario, dando prova di una mentalità davvero aperta, decise di permettere l’assistenza spirituale non solo alle donne turche o di religione islamica, ma anche a quelle straniere e di altre religioni. Il Vicariato apostolico di Istanbul colse questa possibilità e, dopo alcuni rifiuti di altre chiese, si rivolse alla chiesa latina, in particolare ai francescani.

“Sembra una banalità, ma la prima cosa che mi ha colpito è stata la solitudine di queste donne: si trovano in un carcere di alta sicurezza in un paese straniero, i loro familiari non possono né vederli, né sentirli. Una lettera scritta ai propri cari impiega tantissimo ad arrivare a destinazione. E allora la spediscono a noi [in carcere è proibito passare oggetti ai visitatori], noi la scansioniamo e la mandiamo per email alle loro famiglie. In questo modo creiamo un ponte con le loro famiglie d’origine, un dialogo più diretto, e riusciamo così a mostrare anche le foto dei familiari, magari dei figli, alle donne detenute”. 

Il sostegno non si ferma dentro le mura del carcere, perché quando la pena è stata scontata, ci si trova davanti l’incertezza del futuro. “Dietro di noi c’è una grande rete di benefattori: grazie a loro siamo riusciti a far tornare a casa tante donne, oppure le possiamo assistere qui ad Istanbul, le accogliamo nel nostro convento e in questo ci aiuta molto la mia superiora, Sr. Zita Gutang, che lavora in Caritas. Ricostruire una persona uscita dal carcere è difficilissimo, anche perché la carità non si improvvisa: se una donna è finita nel racket della droga o della prostituzione è stato solo per “bisogno”, per povertà, per vulnerabilità.

Spesso vengono prese le donne incinte perché non possono passare sotto lo scanner, ma molto spesso, alla fine di un viaggio lunghissimo nel quale non possono né bere, né mangiare, vengono intercettate lo stesso e la loro libertà si ferma appena sbarcano in Turchia. A fine pena devono ricrearsi una nuova vita, a partire dai documenti, e noi non abbiamo paura ad accoglierle nel nostro convento, a vivere con loro, ad essere presenza viva al loro fianco, perché ormai loro sono parte di noi e noi di loro”. 

Sr. Stella Balthasar vive in India, nella provincia di Ootacamund (stato del Tamil Nadu), dove è impegnata con le sue consorelle nel progetto “Empowering Widows”, che ha l’obiettivo di sostenere ed aiutare le vedove, altrimenti stigmatizzate dalla società perché considerate portatrici di sventure. 

“La società indiana considera le vedove come cattivi presagi: le vede come cavalcate da una maledizione di Dio. Una vedova deve nuotare attraverso la corrente dei pregiudizi e superare gli ostacoli per stabilire la sua identità e rivendicare la sua dignità”, ci scrive Sr. Stella.

Il progetto è nato nel 2016 e in poco tempo ha coinvolto oltre 1500 persone del Tamil Nadu occidentale; sostenute dalle Missionarie di Maria, le vedove hanno preso innanzitutto consapevolezza della loro condizione, sicuramente non imputabile a loro, e hanno iniziato ad opporsi alle pratiche ingiuste a cui erano sottomesse. 

“Il 23 giugno 2017, Giornata internazionale delle vedove delle Nazioni Unite, è stata organizzata una cerimonia dall’Associazione delle vedove Nazareth Neela, in cui la signora sindaco della città di Ootacamund, durante una cerimonia al funerale del marito, ha restituito alle donne ciò che era stato tolto loro a causa della loro vedovanza. La gente lì presente iniziò a vederla non più come una vedova, ma come una persona con pieno potenziale umano e ricchezza per contribuire alla crescita dell’umanità. Questo senso di libertà ha portato una grande fiducia in se stesse, e ha permesso a tante donne di intraprendere iniziative per migliorare la propria condizione economica attraverso piccoli mestieri, risparmi per il futuro, coraggio per sfidare le molestie sul posto di lavoro e forza collettiva e sostegno reciproco. Hanno anche svolto servizi comuni come pulire le strade, piantare alberi nei luoghi pubblici e diffondere la consapevolezza ecologica del pubblico. Il movimento è in graduale e costante crescita”.

Melania Bruno
Ufficio Comunicazioni OFM